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" LA STAZIONE "

 

 

 

Olio di Domenico Cugusi

 

 

Là dove il Sole si specchia di sé

e la Luna illumina la Bellezza

per tramutare i sogni in realtà,

là dove le donne sognano e gli uomini pensano,

dove un improbabile treno corre sui binari

a portare la speranza del domani :

lento incedere di ferraglia che ansima

gli ultimi attimi di un tempo che non passa,

là finisce la corsa e l’affanno.

Riposa.

La panca fredda davanti ai binari

Ricorda il silenzio del tempo che verrà.

D. Cugusi

 

Dietro quei vagoni corrosi dal sole ci sono solo uomini. A sognare improbabili incontri con la Dea dei treni che pare popoli le notti di luna della Stazione .Il prescelto scompare dove il binario tocca il cielo e và a raccogliere il frutto proibito della passione che sconvolge i sensi e riempie la mente di magia : il sogno, la fantasia, l’illusione di un’altra volta, l’attesa che nuovamente sarà il prescelto. E la dea della Stazione sconvolge il cuore e penetra nella mente riempendola di sé.

 

Olio di Domenico Cugusi

 

 

 

Olio di Domenico Cugusi

 

I volti della Stazione sono i volti della vita realmente vissuta in diretta.

 

 

 

 

I Ritratti di Domenico Cugusi

" Pinuccio Barbera "

 

 

Qualcuno si chiederà chi sia quest’ uomo che da oltre quarant’anni scruta i volti dei viaggiatori che si affacciano sul piazzale soleggiato della stazione e ne scandisce i passi leggeri sino all’auto in attesa con gli sportelli aperti. Chi sia questa faccia che riesce a sorridere alla vita, che tenta di acchiappare l’allegria anche quando fugge a nascondersi nei vagoni dismessi o nel buio del ricordo, che neppure il silenzio del destino deprime... Chi sia quest’amico che resiste al tempo e alle storie della vita, ai viaggi nelle ore più dure, alla gente. Un auto che attraversa le vie della città, corre lungo la strada del porto, che a qualunque ora si spinge sino a Cagliari, ultimo taxi che lascia la piazza dei treni deserti, il primo che accende i motori quando il mattino sta tentando lentamente di aprire gli occhi al giorno. Il rito del giornale dello sport per gioire delle vittorie juventine, poi il caffe più buono che ci sia, al Bar della Stazione, a polemizzare coi clienti, a irridere, strafare, ad umiliare . Ad inventare storie di passioni ed occasioni sue, speciali. A giocare il gioco, a vivere giocando il tempo che gli altri non comprendono: il gioco è di parole che vanno a combattere la guerra delle discussioni infinite. Signor Pinuccio, un mio amico...

Un amico che io conosco da sempre, da quando ragazzo all’uscita della scuola lo trovavo con la vecchia Peugeot bianca ad aspettarmi per raccontarmi impossibili storie di donne che solo lui sapeva l’esistenza. Storie di giovanili scorribande che la fantasia riempiva di magia, che la mente ridisegna ancora nei pomeriggi afosi dell’estate quando il sonno concilia i ricordi dei sogni di un tempo che torna ogni giorno a rinvigorire l’esistenza e a rendere la giornata più gioiosa. Storie di carte, giocate per vincere una mano come fosse una battaglia, una donna da conquistare e abbandonare per un’altra vittoria. Tre sette, con me ragazzo, che non sapeva giocare coi grandi numeri della serietà matura. La prima auto, il maestro che guida l’allievo sui tortuosi meandri della sua passione su una bella Fiat 125, gentile ed elegante per la mia irruenza giovanile. La sua arrogante timidezza, il suo burbero accenno al complimento... Signor Pinuccio, per molti solo Barbera come un buon vino, per me solo un ragazzo nato prima, un amico più grande che ti insegna i giochi dei grandi, che racconta le storie che inventa, che gioca a fare l’uomo vissuto, che cambia le pagine dei giorni con le vittorie Juventine, che congiunge le vie con i viaggi del suo taxi bianco, e quando pensa, sogna una donna, la donna che non ha mai avuto. La Dea dell’Amore che racconti al mondo le sue storie. E che dica, finalmente, che era tutto vero, nessun sogno è stato, nessun racconto inventato, resta il ricordo, anche se sbiadito dal tempo.

 

 

 

I Ritratti di Domenico Cugusi

" La Scuola Media N.1"

 

Ai tempi dei miei tempi, quando ragazzo volavo libero a rincorrere i sogni e la fantasia non aveva confini, mi fermavo a far riposare la gioia quotidiana dei giochi sui banchi della Scuola. L'unica vera scuola allora esistente, oltre le Elementari di Via Solferino, la Scuola Media n° 1, già Regio Liceo Ginnasio.

Chi non c'è stato ! in quelle austere mura di cultura, chi non ha visitato il giardino interno che immetteva nella sala del Preside, chi, a causa dell'irrequietezza giovanile che disturbava lo svolgimento delle lezioni, veniva cacciato dall'aula e si nascondeva nei bagni per paura di essere visto dal Preside, sopportando stoicamente l'odore acre della candeggina misto all'umidità delle pareti .

La vecchia amata scuola Media impregnata di storia e di latino, di serietà e disciplina, di regole di vita, di moralità, di etica, di educazione civica e di comportamento.

Il mio vecchio professore di italiano che amava il latino della chiesa, la matematica dei numeri scomposti nell'anarchia della mia mente che trovavano una dimensione corretta nell'insegnante che fumava la vita come le sue cento sigarette del cammello, il professore di ginnastica, austero e greve nel suo portamento di atleta, che detestava il nostro calcio, il nostro gioco degli asini, il pittore che tramutava i colori nel movimento sublime dell'arte e immortalava noi giovani, impiastricciati di colore, sulla tela che prendeva corpo come fossimo stati trasportati là dentro.

Con passo lento e felpato, il sorriso dolce sulle labbra, occupava l'aula, nel silenzio più totale, il nostro respiro represso, la severità buona del Professor Attilio Mocci. Volava allora, nel magico pensiero di ragazzi indisciplinati, la poesia che rincorreva la storia e si fermava a contemplare i latini che avevano conquistato il mondo, e ancora dovevano riuscire a convincere, attraverso il Prof. Mocci, che bisognava studiare quella materia che ci avrebbe formato e insegnato a comprendere meglio la vita.

Quante mattine con la sua nera bicicletta da donna, sfrecciava imponente nel piazzale della Scuola, in doppio petto grigio, incutendo soggezione e rispetto, - il nostro professore ! - a tutta la Scuola riunita in quella piazza, prima del suono della campana.

La scuola, come Lui : severa, rassicurate, sobria, discreta . Colta, di una cultura naturale, spontanea, di chi è avvezzo a parlare con gli autori classici perché ne comprende il pensiero, ne condivide l'idea, hanno la stessa educazione, la stessa sostanza mentale, intrisi della modestia che li rende superbi.

Quando nell'andito si sentiva l'odore del tabacco giungere dalle lontane aule della paura, là dove i numeri cominciano a delinearsi e a prendere forma, era giunta l'ora di Gilda. Già il nome, la figura massiccia, - sostanza e niente fronzoli - , la possanza della razionalità, come una sferzata di realtà ci riportava nell'aula a rincorrere i problemi , le equazioni inespresse e incompiute dei nostri anni ancora da capire…la professoressa Ermenegilda Secchi, un solo nome , la matematica !

Poi l'ora di ginnastica, il mitico Severino Ibba, per poter finalmente slegare i nostri istinti in un campetto dietro la scuola correndo a perdifiato contro un improbabile professore che detestava una sfera di cuoio che noi avevamo sempre nella mente anche quando ci costringeva in esercizi ginnici, che per noi, ragazzi di campi di calcio, era roba da femmine! Quelle che per la prima volta avevamo capito l'esistenza, la gioia, il battito del cuore che si perdeva nei pensieri nelle ore della matematica, a confondere i numeri con i sogni.

La Professoressa Satta, la natura, le scienze, la delicata spiegazione di un mondo nostro di corse, di alberi scalati per le prime scorribande fuori casa, di animali fantastici di un Africa dei sogni.

Arrivava con la sua pipa da signorotto di campagna il magico maestro di disegno che tramutava la realtà in gioia di colori, Antonio Corriga, con la sua aria snob , un po’ degnante su di noi, colorava le lezioni in bianco e nero coi suoi forti oli di uomo di montagna.

E le note dolci sovrastavano la chiassosa scolaresca diffondendo melodie di violino e accordi di chitarra che aleggiavano sui passi cadenzati della Signorina Casu che giungeva per l'ora di musica. L'ora della Musica ! per me irruente ragazzino di giochi maschi, inconcepibile strumento di tortura nonostante l'insegnante dagli occhi tristi.

Che privilegio, la Scuola Media di Piazza Mannu ! che orgoglio, poter dire che noi ci siamo stati, che quei professori li abbiamo conosciuti, stimati, rispettati.

E che dopo di noi altri ci sono stati e magari i nostri figli sederanno sugli stessi banchi occupati, da noi, giovinetti d'allora.

Ed anche adesso, la mattina, nell'attesa dell'uscita di mia figlia dalla scuola, contemplo il caseggiato scolastico che gli anni hanno segnato di quella polvere del tempo che l'ha reso unico contro la modernità imperante dei prefabbricati pieni di amianto e di pericoli, di brutture architettoniche e di anonimato. La Scuola di Piazza Mannu, così diversa , così umana, così bella !

Resiste contro perfino i nuovi barbari calati da un Municipio di mediocrità, poveri invidiosi presuntuosi, che la vogliono occupare.

Resisterà. Resisteremo all'orda famelica, combatteremo perché i nostri anni non siano gettati nell'ammasso della stupidità, i muri, intrisi di cultura resisteranno, perché i nostri figli continueranno a frequentare serenamente, in un ambiente accogliente, tra vecchie sane mura, tra buoni professori ed un Signore che guida la scuola con amorevole bontà.

Domenico Cugusi

" L’intelligenza vola

Ridendo

In una inconcepibile anarchia. " ( D.Cugusi )

 

Passò sui banchi e sulle menti vuote

Sulle inutili presenze di vita

persa in un sorriso finto di comparsa e

Tracciò un segno

nella loro inutile storia quotidiana.

Volava libera l’Idea a disegnare un senso

Una ragione superiore,

a far capire a misere presenze indisponenti

la forza del pensiero.

A quello di loro più superbo

Chè la stupidità gli aveva consumato persino

L’ultimo barlume di pudore,

lo chiamò sindaco, sindaco , sindaco,

e volò via lontano

dove lo schizzo dell’onda bassa che sfiora i passi dei lombrichi

non potrà mai giungere,

là dove la mente disegna magie e irride i poveri balocchi

vestiti di superbia e d’arroganza chiamandoli sindaco.

Uno per tutti lanciò la propria testa in aria

Cercando di arrivarci,

verso l’Idea inarrivabile,

Ma cadendo si sentì nell’aria solo il suono vuoto

Della mente.

Fu eletto sindaco. Ma non capì.

 

 

 

 

 

 

 

 Cavalcando teorie notturne vestite d’ignoranza/